Me lo state dicendo tutti. Ogni estate. Ogni anno. Da trent'anni a questa parte.
Non sono malato, non è anemia, non è qualche reazione a qualche medicinale o a qualche mese di isolamento in carcere.
Sono banalmente, mortalmente, definitivamente pallido, o diafano, latteo, cereo, o come diavolo volete voi.
Morto scavato, zombie, malato terminale. Ditemi tutto, tanto non aumenterà di certo la percentuale di melanina nelle mie cellule epidermiche. Al massimo le potrà far arrossire.
Non è (solo) rabbia quella che provo ogni volta che mi fanno notare il colorito, è consapevolezza di quanto una caratteristica fenotipica abbastanza variegata come il tono della cute possa trasmettere qualcosa di mio, che mio non è.
Essere pallido, o verde, o nero, o giallo non farà di me una persona buona o cattiva, degna del paradiso o meritevole dell'inferno. Quindi se mi devastassi di lampade d'inverno non cambierei certo opinione nei confronti della guerra in Libia o di quei quattro gatti che in pianura padana chiamano leghisti.
O forse sì? O forse le reazioni chimiche che avvengono sulla cute, oltre che a migliorare l'umore e rafforzare le ossa, rafforzassero anche le mie idee? Le mie capacità? Le mie battute?
E se le peggiorassero? E se dopo un ciclo da 100 sedute di trifacciale diventassi un cattolico devoto, o un pianista eccelso?
E se fosse tutta una montatura di chi ti vuole bello preciso come i divi della televisione?
E se invece la gente fosse leggermente più sveglia e se poco prima di aprir bocca pensasse?
Ma sì, fammi provare l'ebbrezza di andare da un nigeriano e dirgli in faccia "Ma sei nero! Hai preso troppo sole?".
Poi cercherò una stangona da 2 metri e le rinfaccerò la statura, sottolineando il fatto che deve praticare basket, così almeno potrà essere tra simili.
E se invece la smettessimo di guardare, e iniziassimo a vedere?
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